venerdì 18 aprile 2008

DIARIO LIBICO

Perché questa inquietudine, ancora, ancora, è lungo tempo che mi rileggo e ritrovo questo senso di vuoto. Se ripenso ad Allam, Abdulrahim, ma anche Kubilay, Naima, Ghzalla, Zahra e le sorelle… non lo so. E ancora alla costa pugliese che sembra un cielo al contrario visto dall’aereo, e a quella volta che sono atterrata a Punta Raisi e sembrava di finire direttamente in mare, qualcosa di indefinibile muove la mia anima… perché?
Un senso di vuoto: questa città non mi appartiene più, mi isolo dalle feste, dalle serate qui a Milano, mi isolo da tutto… E’ il sud che cerco, il sud, sempre più giù, ed è strano, quando ne parlo con amici mi prendono per un extraterrestre: come fa a mancarmi tanto??



Tripoli, venerdì 18/04/08

Ci siamo, solo dieci giorni fa ho chiamato Lino, il coordinatore del nostro viaggio, per chiedergli dettagli sull’organizzazione. La sua risposta è stata: “Ah, posti fantastici. Ho iniziato ad informarmi e quello che mi sono detto è stato: ma perché non ci sono andato prima!”
Stupendo. Ora che conosco Lino mi rendo conto che nessuna risposta è più consona alla sua personalità.
Ecco tutto: appena messo giù il telefono, ho controllato se ero in tempo per il visto, cosa mi serviva, e la mattina dopo avevo spedito passaporto a Roma e pagato l’anticipo: dettagli di viaggio più che soddisfacenti direi.
Tripoli mi rapisce subito. E non so spiegare se sia questo celeste del cielo al tramonto, con i lampioni che iniziano a diffondere una tenue luce sulla gente, o meglio sugli uomini che fumano la narghila (qui la chiamano così) e bevono il the nei numerosi bar intorno alle piazze del centro. O forse l’evidente impronta dell’architettura fascista italiana nelle banche di Saha al Kadrah la piazza verde, negli altissimi archi del Palazzo del Popolo in Midan Al Jazair, mista a quella islamica dei suq, delle donne velate e dei locali di the.
L’unica cosa che so è che nessuna città mi ha mai colpito in questo modo.
È come se la conoscessi da una vita.
E di nuovo mi prende quest’ansia inspiegabile, la necessità di entrare “dentro” il paese, dentro la realtà, comunicare con la gente. Non mi basta più viaggiare, ho bisogno di entrare completamente in quella vita.
È come se ogni viaggio, ogni Paese che visito, rubasse qualcosa di me: anziché ampliare il mio orizzonte, la mia anima, è come se ne staccasse un pezzo, ed io ne risulto mutilata, con una specie di senso di mancanza.
I miei compagni di viaggio sono fantastici. Armati di macchina fotografica inquadrano e scattano, sicari al lavoro sulla propria vittima: il banchetto delle spezie, la signora in burqa, l’anziano signore del negozio di stoffe che beve il the, aspettando pazientemente che il cliente scelga il colore e il tessuto più appropriato.
Io cammino per il suq e osservo, in silenzio, talmente estasiata non riesco a fotografare, nè riesco a unirmi all’allegro baccagliare dei miei amici.

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